Forse già l’ho detto ma volentieri lo ripeto. Ho sempre avuto la fortuna di intercettare figure artistiche di notevole spessore. Che si occupassero di rock, elettronica o ricerca, tutte erano accumunate dall’impagabile e unica caratteristica che accomuna solo poche persone e le rende simili: l’intelligenza, la curiosità e la passione. Luigi Turra è una di queste e la bella conversazione che segue ne è la dimostrazione. Si parla di materia non diffusa, apparentemente “difficile” all’ascolto, aliena. Apparenze, tutte costruzioni dettate dalla fretta dell’ascolto compulsivo e veloce. Adagiatevi nel vostro silenzio prediletto e iniziate a leggere. Ciò che man mano si presenterà davanti ai vostri occhi sarà un mondo colmo di colto e seducente silenzio.
Iniziamo subito dalla definizione che usi per specificare il tuo lavoro: reductionist/electroacoustic composer. Traduci e spiega in termini comprensibili per chi non frequenta assiduamente i lidi della ricerca sonora.
Considero riduzionista il mio lavoro nel momento in cui opto fondalmentalmente per un azione di rimozione del suono. O meglio ancora di rimozione per evidenziare l’intervallo diastemico esistente tra differenti eventi e di conseguenza tradurre l’idea che un insieme possa essere espresso quando si comprendono le sue parti distinte e quindi la natura del loro insieme.
Più semplicemente mi interessa la pausa. Ma non come assenza (o in parte assenza) ma piuttosto come intervallo che possa mettere in evidenza un pieno e che a sua volta possa giustificare un vuoto. Oltre questo, da sempre sono attratto dalla natura dei suoni acustici, dalla loro fisicità e dalle loro qualità tattili e concrete pertanto non elettronicamente generate.
Luigi Turra, il tuo percorso di ricerca non solo musicale in poche righe.
Un percorso che sostanzialmente è più legato ed influenzato dalle arti visive che non ad espressioni prettamente sonore.
Mi interessano le superfici della materia, ad esempio il modo in cui il tempo agisce sulla pietra e sul legno. Come questo lo scava, lo corrode e ne metta in evidenza gli elementi residuali.
Mi interessa la lentezza di questi processi perché in un certo modo svelano una bellezza che non sia sottointesa ma che diventi parte di un’indagine e di un percorso di scoperta.
E’ pertanto corretto dire che per certi aspetti il mio è un percorso che subisce un’influenza resa più determinante dal visivo rispetto al sonoro e che per certi aspetti spezza certi paradigmi legati alla pura musicalità.
Soprattutto quando mi chiedo per esempio: qual’è il suono di una superfice che lentamente si corrode? Qual’è il suono di una foglia che si disidrata in maniera progressiva. O più precisamente, quanto dura nel tempo questo ipotetico processo di generazione sonora?
Le risposte a queste riflessioni sono gli imput che mi inducono alla ricerca. Sia timbrica, sia strutturale della musica.
Un termine sorge spontaneo quando ci si avvicina a compositori che lavorano usando l’essenzialità: minimalismo. Cosa significa per te questo termine e perché questa scelta.
Premetto che considero soltanto in parte me stesso come “minimalista”.
Se lo consideriamo nell’accezione storicizzata il termine “minimalismo” prevede una sorta di ripetizione seriale degli elementi, sia che si tratti di Philip Glass, della Techno di Detroit, della scultura di Sol LeWitt o della pittura di Ad Reinhardt.
Di fatto nel mio lavoro accadono molte più cose che tendono ad esulare quasi completamente la ripetizione, il loop… per privilegiare una sorta di complessità strutturale in continuo mutamento.
Un qualcosa che potrei definire… brulicante. Comunque vivo e capace di interagire con il pieno/vuoto in modo assai imprevedibile.
Il termine “essenzialita” mi è probabilmente più congeniale poichè attuo questo modus operandi sempre e soltanto con pochi, precisi e necessari elementi. Ovvero solo gli elementi che io reputo adatti per creare una precisa identità sonora di Forma/Funzione scevra da ogni tipo di inutile orpello.
Per questa ragione sono attratto verso ciò che io considero l’impalcatura di un processo/risultato e non la sua vestizione.
Quale il nome che più ti ha affascinato e convinto a proseguire lungo la rigorosa strada dell’essenzialità.
Due nomi per due contesti differenti. Tadao Ando per l’architettura e Marguerite Duras per la letteratura ed (in parte per) il cinema.
Esiste una materia che convive con la parte minimale dell’espressione sonora ed è il silenzio. Senza iniziare a citare i vari Cage, quale importanza riveste per te questa componente e quale è la sua reale struttura.
Un importanza radicale. E’ un àtopos, uno spazio che non ha unità di misura. Non mi sono mai riferito infatti a Cage e al suo delegare dettagli decisivi all’ego del interprete dei suoi pezzi ma piuttosto porre il focus sull’atto stesso dell’ascolto.
La percezione del silenzio, o quello che noi pensiamo di ritenere silenzio è già il fulcro del mio lavoro perché sono convinto che sia la capacità del percepire a farsi opera.
Da sempre lavoro su una concavità, atta ad accogliere completamente l’ambiente circostante, non per escluderlo come fosse una camera anecoica.
Potrei affermare che si tratti di un invito al dialogo, una continua interazione tra il proprio respiro e il mondo (o spazio) circostante che in modo paradossale rivela che nel mio lavoro non ci sia un solo istante di silenzio poiché sovente sono gli stessi intervalli o le fratture che creo a suggerire il suono.
Non si tratta tuttavia di un approccio contemplativo, perché sarebbe a mio avviso troppo scontato e per certi versi banalmente estetico. Non aspira al trascendente.
Tant’è che la mia musica non nasce per essere intesa come bella o contemplativa.
Piuttosto sono sovente creare violenti squarci nella campitura silenziosa. Destabilizzanti, molto secchi in modo tale da frantumare anche brutalmente certi equilibri che l’ascoltatore con la sua percezione può tentare di ribilanciare.
In questa prospettiva il silenzio può essere un elemento estremamente potente perchè è al contempo sospensione temporale (quindi che presuppone un taglio preciso non necessariamente quieto tra due eventi sonori) ma anche viatico per essere suono insintuale.
Una domanda secca: minimalismo o ermetismo?
Nessuno dei due. Essenzialità. Applicata alla musica e alla vita reale in modo paritetico.
Non considero ermetico quello che faccio.
Mi sono sempre chiesto quali siano le aspettative di chi compone suono di ricerca. A quale pubblico si riferisce e quali risposte vorrebbe gli giungessero.
Al di là delle pubblicazioni discografiche negli ultimi anni ho cercato di relazionarmi ad un pubblico differente tramite alcuni progetti installativi forse più legati all’Arte Contemporanea.
Questo mi ha permesso di avere feedback da gente per lo più estranea alla cosidetta “musica sperimentale” trovando peraltro questo tipo di confronto molto più interessante di quello che accadde solitamente.
Con solitamente intendo che spesso il pubblico non è altro che… “altri musicisti”.
Il che rischia di rendere tutto eccessivamente autoreferenziale. Quindi poco propenso a far germogliare sviluppi reali e degni di nota per future ricerche ed espressioni.
Difficile non ascoltare i tuoi lavori senza pensare ad una relazione con la contemporaneità del suono. Ti consideri un compositore di musica contemporanea o rimani in quell’area indefinita che prevede anche l’uso di metodologie e linguaggi non necessariamente altri, come si usava dire un tempo usando un termine ormai desueto.
Il desueto, così come l’essenziale mi è congeniale. Forse una certa relazione con la contemporaneità esiste in quanto non-modernità.
Non mi preccupo di essere alla moda o perseguire questa o quella tendenza.
Agisco ai margini. Per certi versi mi sento vicino a certa espressione della Musique Concrete francese o comunque ad un’estetica che trova i suoi riferimenti nel passato e soltanto in minima parte nel presente.
Mi interessa un possibile crocevia tra elementi remoti ed elementi più stilizzati per sviluppare come ad esempio in Fukinsei, il mio ultimo disco un rapporto di convivenza organica tra elementi sonori della tradizione giapponese seminati in un contesto sonoro più attuale.
Per ottenere questo utilizzo ciò che reputo più adatto, che sia uno strumento acustico, il suono prodotto da una pietra, dal legno… o il sibilo prodotto con tecniche No Imput Mixer.
Già questo mi allontana dall’essere un compositore di musica contemporanea o peggio ancora un accademico.
Anzi, sono indubbiamente un sostenitore dei conflitti delle fratture culturali. Delle relazioni costanti tra elementi di natura diversa che solo apparentemente sono inconciliabili. Linguaggi altri perché in linea di massima ho sempre trovato più interessante ciò che esce dal seminato piuttosto che perseguire il tragitto confortevole del già sentito.
Luigi Turra ha sulle spalle una notevole discografia, sia da solo che in partecipazioni e compilation. Il tuo primo album risale al 2007 (Enso per la Smallvoices), il tuo ultimo è uscito l’anno scorso (Fukinsei per la giapponese mAtter). Cosa hai voluto condensare nelle quattro uscite discografiche pubblicate nel corso di questi anni.
Fondalmentalmente un risultato estremamente distillato della mia ricerca. Non sono un presenzialista e credo che quattro album solisti pubblicati in 12 anni attestino una precisa scelta estetica.
Probabilmente anche rischiosa in virtù del dictact dell’era digitale in cui un breve tempo di assenza corrisponde all’oblio. Ma non mi sono mai preoccupato di ciò dal momento in cui trovo più interessante coltivare un’assenza che ostentare una presenza.
Per questa ragione questi quattro album tracciano un percorso ben definito dove credo sia leggibile la tensione nel ridurre e scolpire sempre di più il suono, al fine di sottrarlo dagli eccessi e svelarlo come un nervo scoperto anche tramite una certa violenza sottocutanea o meglio una tensione sottile ma che rimane costante nel tessuto del silenzio.
L’uomo contemporaneo è costantemente a caccia di stimoli che possano colmare qualsiasi residuo vuoto di spazio, tempo e pausa. Questi dischi sono l’antitesi di un certo Horror vacui che permea la contemporaneità e che esprimono in sé una sorta di propensione monastica come anche instanze segrete. Tuttavia assolutamente non ermetiche come potrebbero apparire ad una prima impressione
Ma piuttosto capaci di mettersi in relazione con chi vi si accosta con la giusta calma.
So che stai lavorando con Fabio Perletta ad una nuova release di estremo interesse. Puoi darci qualche anticipazione?
Attorno al 2016, dopo che entrambi avevamo realizzato un album per LINE sono entrato in contatto con Perletta poichè rimasi estremamente colpito dal suo lavoro. Pertanto fu inevitabile invitarlo per rielaborare un progetto che avevo in cantiere da anni, ovvero uno studio sonoro con registrazioni effettuate in vari spazi architettonici progettati da Tadao Ando.
Posso anticipare che dopo anni di lavoro in sinergia, verso la prossima primavera usciremo con questo album, intitolato MA composto seguendo i principi estetici di Ando traslandoli in forma sonora e di esperienza di ascolto dello spazio, senza tuttavia documentare un preciso habitat architettonico ma piuttosto suggerire uno spazio all’interno di un altro spazio e come il suono possa abitarlo.
Qui ritorna il concetto della pausa di cui parlavamo sopra. MA (間) è l’elemento temporale che separa due note.
Il concetto di vuoto che rende percettibile il rapporto esistente fra interno ed esterno in architettura. Nelle nostre intenzioni MA sarà un progetto in costante divenire, non relegato alla sola pubblicazione discografica ma veicolato in una particolare forma installativa e performativa.
Grazie al suo grande talento e alla sua sensibilità nel comprendere il silenzio in forma sonora.
Fabio Perletta era l’unica persona con cui si potesse definire e produrre questo progetto al meglio perché di lui ammiro moltissimo il suo talento nel disciplinare l’atto creativo.
Luigi Turra e la cultura orientale. Forse sbaglio ma sento come una tua vicinanza alla cultura orientale, giapponese per la precisione. Sbaglio?
Per noi occidentali risulta difficile concepire il valore vuoto.
Senza dovere ricorrere a riferimenti circa lo Zen, sono estremamente vicino all’idea del vuoto non intenso come semplice assenza ma come elemento positivo ed efficace sostanza del pieno. Mi sento davvero vicino a questa cultura per sensibilità e per assonanza circa questo concetto.
Mi interessa il differente concepire l’idea si simmetrico/asimmetrico in questa cultura (rispetto a quanto inteso nella cultura occidentale) e naturalmente amo tantissimo la musicalità orientale.
Mi interesso oramai da anni allo Zen, come disciplina per avvicinare me stesso ad un bilancimento,
che al tempo stesso anelo a non trovare per poterlo cercare per sempre.
Inconsciamente non saprei. Molti dischi per solo Shakuachi o Koto ascoltati in tenera età credo siano stati formativi.
Ultimamente sono molto coinvolto nello studio della cultura Cinese. Dei suoi antichi influssi nella cultura giapponese a partire dalla diffusione della poesia cinese durante il settimo secolo.
Credo che in un certo qual modo la musica cinese possa essere un importante riferimento per mie future riflessioni sul suono e sull’arte in generale.
Come ci si ritrova in Italia, ad essere compositori che agiscono in terre di confine come le tue.
Da una prospettiva onesta non saprei dirti. Ho una propensione piuttosto monastica circa le relazioni con altri musicisti, istituzioni o festival per avere un’idea precisa in merito.
Di certo vivere a Los Angeles offre più chance credo. Ma avere più chance non è mai stata una mia priorità quanto piuttosto quella di progedire con lentezza e disciplina.
Secondo te esiste una realtà italiana compositiva e di ricerca nella quale ti ritrovi, sapresti darmi dei nomi che ora senti più affini al tuo agire artistico?
Probabilmente esistono vari nuclei, ciascuno con un suo percorso. Non so se esista una scena o qualcosa che sia intesa come tale. Ci sono realtà brillanti ed immensamente interessanti che tuttavia devono trovare spazio tra una caterva di pubblicazioni assolutamente non necessarie. Che tolgono ossigeno ed inaspriscono.
Trovo affinità di intento con certi nomi ma pochi di questi sono italiani.
Propositi per il futuro.
A breve termine oltre al disco condiviso con Fabio Perletta sto definendo gli ultimi dettagli per una nuova uscita con l’etichetta giapponese mAtter gestita da Yukitomo Hamasaki.
Di fatto un disco basato su “Varianti” del mio album Fukinsei e nel quale nomi come Richard Chartier, Kenneth Kirshner, France Jobin, Shinkei e Perletta stesso hanno rielaborato il materiale di partenza per raggiungere diversi esiti compositivi, non di rado migliori del disco originale dando così un senso di reale soddisfazione all’intera operazione.
Link > Diserzioni/Sherwood
COME UNA SORTA DI ECOLOGIA UDITIVA. INTERVISTA DI SARA BRACCO (SENTIRE ASCOLTARE)
Qual è il tuo percorso e il tuo approccio alla musica concreta e sperimentale?
Il mio approccio alla musica concreta sta nel combinare queste auto-generazioni timbriche preesistenti, scolpirle, guidarle attraverso la manipolazione fisica o metterne in evidenza alcune per nasconderne invece altre secondo una sorta di metodo scultoreo. Senza dubbio è sperimentale fino ad un certo punto visto che compositori come Pierre Shaeffer o Pierre Henry (per non citare i contemporanei Eric La Casa e Toshiya Tsunoda) hanno codificato e sviluppato al meglio questo tecnica. Da parte mia interpreto attraverso una personale visione questa grande lezione.
Com’è nata la collaborazione con David Sani e l’etichetta Koyuki? Mi parli del progetto? Quali erano gli obiettivi e quali sono stati i risultati?
Koyuki nasce in primis dal rapporto di amicizia fra me e David. E’ sopratutto questa la scintilla che ha scaturito il progetto oltre alla passione comune per un certo tipo di musica orbitante nell’ambito dei microsuoni e del lowercase. Inoltre oltre a nutrire per lui grande stima come persona sono anche un grande ammiratore del suo operato come musicista sotto il nome Shinkei. Koyuki è nato inoltre un po’ per gioco con la voglia di provarci ma che nell’arco di un solo anno ha raggiunto delle vette per noi insperate con un ottima accoglienza da parte della critica specializzata e con un roster di artisti di cui da sempre siamo grandi ammiratori.
Fondalmentalmente, Koyuki è un’ etichetta nata per documentare proposte di artisti che si esprimono attraverso linguaggi minimali, pur con tante e diverse sfacettature.
Credo che questa coerenza alla fine sia stata la qualità che ci ha dato ragione visto che abbiamo in programma pubblicazioni di importanti artisti internazionali quali Steve Roden o Tomas Phillips. Questo, direi, anche curiosamente visto le dimensioni intime del progetto e delle sue tirature estremamente limited edition. Ma lentamente, passo dopo passo siamo riusciti a forgiare un’identità precisa per Koyuki che oltre alla coerenza sonora si caratterizza in modo puntuale e preciso anche per la precisa stilizzazione dell’aspetto grafico e del design.
Label come l’americana Line o la giapponese Meme sono stati riferimenti molto importanti nella stesura delle linee guida di koyuki. E’ un impegno notevole, sopratutto per David che gestisce i clienti e i distributori ma i risultati ripagano di ogni fatica.
Il riduzionismo, nel tuo comporre, ricerca un “suono-silenzio” impalpabile alla percezione comune a cui ridarne valore oppure è un “suono-scultura”?
La mia ricerca comprende e anzi si basa su entrambi questi aspetti. Sulla qualità tattile di certe tessiture sonore, dalla matericità del suono quando si compenetra con il silenzio che a sua volta diventa contenitore per il suono circostante e preesistente anche secondo un concetto taoista per me molto importante secondo il quale un recipiente giustifica il suo incavo e quindi il suo senso proprio per la possibilità di accogliere l’ambiente circostante qualunque esso sia.
Il tuo concetto di ascolto?
Accoglimento di tutto ciò che mi circonda. Non necessariamente da un punto di vista musicale. Sovente ascolto in terrazzino i suoni della notte o come ti dicevo, in casa i suoni impercettibili delle conduttore idriche all’interno delle pareti o semplicemente un cantiere edile nelle vicinanze. Un ascolto d’ambiente per me fortemente formativo, peraltro. Ho notato che anche mio figlio è interessato a questo tipo di percezione, e mi pone sempre un sacco di domande sulla natura e sulla posizione di certi suoni. Suoni che addirittura nemmeno io riesco a sentire se non in modo incredibilmente flebile
Quel è il tuo concetto di estetica, come compositore, artista e designer grafico? E quanto è importante per te il “contenitore” e il “formato”nei tuoi album?
Sono due aspetti assolutamente paritari e complementari, senza dubbio. Quando lavoro ad un nuovo brano, per esempio ho già idee piuttosto chiare su cosa visivamente potrà essergli da complemento. Sia dal punto del design, sia dal punto dei materiali. Sono fortunato perché (anche grazie a una certa predisposizione naturale e ai miei studi d’arte) sono riuscito a coltivare una buona educazione visiva che mi permette di tradurre concretamente e senza difficoltà i progetti che ho in mente, molto di più per esempio di quanto non avvenga in ambito puramente sonoro.
Com’è nata questa collaborazione con Fourm? Ci parli del tuo ultimo progetto “Meditation Space”?
Barry G. Nichols (in arte FOURM) è uno straordinario sound artist, oltre che una splendida persona. In passato avevo amato un suo lavoro pubblicato sulla giapponese Spekk, “Cycla”, firmato a nome Level per cui io e David abbiamo colto al volo con grande entusiasmo un suo coinvolgimento nel catalogo Koyuki. Il suo interesse nella relazione tra suono e spazio architettonico (promosso anche dalla label da lui gestito, la White_Line Editions, tramite i dischi della serie archisonics) è stato sin da subito un grande punto d’incontro. Pertanto sono stato molto lusingato quando mi ha invitato a farne parte. “Meditation space” come il precedente “3 “Texture.Vitra” è un lavoro che parte dagli spazi progettati da Tadao Ando. Nella fattispecie dal progetto Meditation Space di Parigi (nei pressi della sede Unesco) all’interno del quale ho registrato dei field recording successivamente riprocessati in modo tale da creare un percorso che dall’esterno dell’edificio ci si potesse dirigere quasi visivamente nel silenzio e nella quiete quasi monacale del suo interno. C’e molto suono nell’esperienza spaziale di Ando. La sua concezione dello spazio/pieno/vuoto possiede l’idea di suono più prossimo al silenzio che io conosca.
Progetti in cantiere e obiettivi futuri?
A breve verrà pubblicato sulla label austriaca Non Visual Object “YU” un lavoro realizzato a doppia firma con Shinkei mentre per il futuro ho in programma altri progetti condivisi (ancora Shinkei e FOURM ma anche con Christopher McFall e Joe Gilmour) e quindi il mio secondo album solista che uscirà il prossimo anno sulla statunitense and/OAR. Direi che è abbastanza. Infatti uno degli obiettivi prioritari sarà poi quello di sparire per un pò e dedicare la maggior parte del mio tempo libero a mia moglie e mio figlio.